Cassazione Penale sentenza n. 16713 del 16 aprile 2018 – Infortunio mortale caduta dall’alto.

Responsabilità del datore di lavoro e dell’ente in assenza di un modello di organizzazione, gestione e controllo della sicurezza e salute del lavoro.

Con l’impugnata sentenza resa in data 26 aprile 2016 la Corte d’Appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Salerno in data 29 ottobre 2013, appellata dagli imputati S.C. ed A.C., nonché dalla società L. S.r.l., concesse al solo S.C. le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla aggravante contestata, rideterminava per entrambi gli imputati la pena e revocava la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Confermava integralmente la decisione di primo grado quanto alla L. S.r.l. La vicenda riguarda l’infortunio mortale occorso in data 12 settembre 2008 a T.S., dipendente della L., precipitato da un’altezza di dodici metri, a seguito dello sfondamento di una lastra di vetro resina posta sul tetto di un capannone ove il predetto T.S. si era portato per effettuare la manutenzione delle grondaie. I giudici di merito individuavano plurime violazioni della normativa antinfortunistica e il nesso causale tra le stesse e l’incidente mortale e ritenevano la penale responsabilità del S.C., legale rappresentante della L. e dell’A.C. nella sua qualità di preposto. Ritenevano poi la responsabilità da reato della L. per la cd. “colpa dell’organizzazione” generica e specifica e grave negligenza nella gestione, condannando l’impresa al pagamento della sanzione pecuniaria di 258.230,00 euro.

La Corte territoriale confermava la penale responsabilità dell’A.C. non per la mancata predisposizione delle misure di sicurezza, bensì per aver omesso di vigilare sulla osservanza dei precetti imposti e sulla concreta attuazione delle misure di sicurezza nell’ambito delle proprie attribuzioni e competenze.

In particolare per aver dato disposizioni al T.S. di eseguire i lavori sistemazione delle grondaie, benché quest’ultimo non avesse mai ricevuto adeguata formazione, né fosse mai stato informato dei rischi specifici connessi allo svolgimento di lavori particolarmente pericolosi, come quelli che si effettuano in quota; con ciò violando l’obbligo che grava sul preposto, ex art. 19 lett. b) d.lgs 81/2008, di “verificare affinchè soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle zona che li espongono ad un rischio grave e specifico”.

Altresì, l’A.C. è stato ritenuto responsabile per non aver verificato che i pannelli in vetroresina non erano assolutamente calpestabili. L’art. 148 del d.lgs innanzi citato, prevede, infatti, che prima di procedere alla esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego.

Nel caso di dubbia resistenza, devono essere adottati i necessari apprestamenti atti a garantire l’incolumità delle persone addette disponendo, a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e facendo uso di idonei dispositivi di protezione individuale anticaduta. Mancando la verifica del grado di resistenza dei pannelli, l’A.C. prima di accompagnare la squadra sul tetto del capannone, avrebbe quanto meno dovuto assicurare i dispositivi di protezione. Alcun dispositivo di protezione, invece, era stato assicurato; non erano state apposte tavole, né sottopalchi e non era stato controllato l’utilizzo corretto delle misure di protezione individuali anticaduta che avrebbero dovuto essere mantenute per tutta la durata della permanenza sul tetto e fino alla discesa. Il T.S., infatti, al pari degli altri componenti della squadra, tra cui lo stesso A.C., terminato il lavoro si liberava delle cinture di sicurezza, dei caschi e delle funi, prima di riprendere il cammino sul tetto per raggiungere il punto di discesa. Ha, altresì, omesso di vigilare sull’osservanza delle prescrizioni idonee a prevenire il pericolo di caduta dall’alto per i lavori in quota, dal momento che, in ogni caso, non era stata seguita la procedura corretta per l’utilizzo delle cinture; sul capannone non era stesa la rete salvavita, ovvero una corda d’acciaio, misura di protezione collettiva che va obbligatoriamente predisposta prima di procedere a lavori su tetti e lucernari ed il dispositivo di protezione individuale anticaduta, per il mancato uso dell’imbracatura munita di gancio da fissare al cavo d’acciaio, era, in ogni caso del tutto inidoneo a garantire l’incolumità delle persone addette ai lavori sul tetto del capannone. Quanto al S.C. la sentenza impugnata ne evidenziava il ruolo di legale rappresentante della L. e la palese violazione delle norme antinfortunistiche contestate.

Quanto infine ala società riteneva priva di fondamento la tesi della mancanza del nesso causale tra il comportamento omissivo del datore di lavoro e l’intervenuto infortunio a causa del comportamento abnorme dello stesso lavoratore e considerava sussistente la colpa dell’organizzazione di impresa, con particolare riferimento alla mancata nomina del RSPP, alla omessa valutazione del rischio ed alla mancata formazione del lavoratore Avverso tale decisione ricorrono :

A.C. lamentando con un unico motivo mancanza ed illogicità di motivazione quanto alla ritenuta posizione di garanzia; S.C. deducendo violazione e falsa applicazione della legge penale nonché vizio di motivazione quanto all’affermazione di penale responsabilità, essendosi il fatto verificato per esclusiva iniziativa dell’A.C. che rivestiva i caratteri della eccezionalità e dell’imprevedibilità.

La L. S.r.l. deducendo che l’incidente mortale non era dipeso da responsabilità del legale rappresentante non essendo stata affidata ad essa società la manutenzione del tetto del capannone; che non vi era quindi stata alcuna “colpa di organizzazione”; che era inesistente l’interesse previsto dall’art. 25 septies del decreto legislativo n. 231 del 2001 necessario ad addebitare la responsabilità da reato all’ente.

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